XII. La conquista dell’America. Il problema dell’”altro” di Tzvetan Todorov, Einaudi Editore, Roma, 1984

Pagina Ufficiale Comitato Nazionale Articolo 3

XII. La conquista dell’America. Il problema dell’”altro” di Tzvetan Todorov, Einaudi Editore, Roma, 1984

 

Per l’autore la scoperta dell’America è stato l’incontro più straordinario della nostra storia perché si è trasformato in uno scontro che ha assunto le caratteristiche di una conquista con tutte le sue conseguenze negative. Il XVI secolo ha così visto compiersi il più grande genocidio della storia dell’umanità a danno delle popolazioni amerindie.

La rilevanza di questo “incontro estremo ed esemplare” con l’America è evidente: “annuncia e fonda la nostra attuale identità, contrassegnando l’inizio dell’età moderna. Nel 1492 siamo entrati “in questo nostro tempo così nuovo e così diverso da ogni altro” (Las Casas).

Colombo ermeneuta

Todorov nella prima parte del suo saggio tratteggia la figura di Colombo “miscuglio di autoritarismo e di condiscendenza” verso gli indiani di cui aveva una percezione sommaria; infatti, non comprende né la lingua né i segni ed è più interessato alle terre rispetto agli uomini. L’atteggiamento di Colombo nei confronti di quella cultura indigena è proprio del “collezionista di curiosità e non si accompagna mai ad un tentativo di comprensione”. Gli uomini che vede solo interessanti solo in quanto fanno parte del paesaggio, vengono assimilati alla natura. Le sue osservazioni si limitano all’aspetto fisico delle persone, alla loro statura, al colore della pelle, “molto più apprezzato quando è più chiaro, cioè più simile al suo”.

Colombo passa da una valutazione positiva di queste popolazioni (dolci, generosi…mito del “buon selvaggio”) all’estremo opposto senza dare giustificazioni adeguate. Egli non capisce il loro diverso sistema di scambio e li considera stupidi fino a ritenere che siano delle “bestie”. Tuttalpiù Il senso di superiorità genera in lui un comportamento protettivo. Di fatto Colombo non riesce a concepire l’altro e gli impone i propri valori; passa da un intento “assimilazionista” che presuppone un’uguaglianza di principio, all’ideologia “schiavista”, cioè all’affermazione della inferiorità degli indiani. Il primo si basa sul proposito di cristianizzare gli indiani, di diffondere il vangelo. “Colombo ritorna costantemente sull’idea che la conversione è lo scopo principale della sua spedizione”. Comunque sia, l’espansione spirituale è indissolubilmente legata alla conquista materiale: questa (e tutto ciò che essa implica) sarà, al tempo stesso, il risultato e la condizione dell’espansione spirituale.

Colombo ragiona come se fra le due azioni si stabilisse un certo equilibrio: gli spagnoli impongono la religione e si impadroniscono dell’oro. Ma, oltre ad uno scambio alquanto asimmetrico e che non soddisfa necessariamente l’altra parte, le implicazioni dei due atti sono opposte e segnalano una contraddizione. Se diffondere la religione presuppone che gli indiani siano considerati uguali (dinanzi a Dio) per appropriarsi delle loro ricchezze bisognerà sottometterli militarmente e politicamente e quindi porli, dal punto di vista umano, in una condizione di inuguaglianza (di inferiorità).

Una parte degli indiani per Colombo “non sono potenzialmente cristiani” e quindi non possono essere altro che schiavi. Una terza via non esiste. Tenta anche di avviare senza successo la tratta degli schiavi verso l’Europa. In ogni caso il comportamento di Colombo nei confronti degli indiani è di chi non riconosce loro il diritto ad avere una propria volontà ma li ritiene degli “oggetti viventi”. Todorov sostiene che “Colombo ha scoperto l’America, ma non gli americani”.

Tutta la storia della scoperta dell’America, primo episodio della conquista, soffre di questa ambiguità: “l’alterità umana è, al tempo stesso, rivelata e rifiutata”.

Il motivo di una conquista

Emerge fin da subito che il lato umano degli spagnoli è la loro sete di beni terreni: l’oro fin dall’inizio e le donne. I conquistatori spagnoli appartengono storicamente al periodo di transizione tra un Medioevo dominato dalla religione e l’epoca moderna che mette i beni materiali al vertice della sua scala dei valori. Anche in pratica, la conquista presenterà questi due aspetti essenziali: “i cristiani si fanno forti della loro religione, che recano in dono al Nuovo Mondo; in cambio, ne traggono oro e ricchezze”.  Soprattutto nella prima fase della conquista il comportamento degli spagnoli è quello di cercare di raccogliere la maggior quantità di oro nel tempo più breve possibile, senza preoccuparsi di conoscere gli indiani.

Nella seconda parte del testo l’autore affronta il tema della “conquista” e le ragioni della vittoria. Egli si limita ad analizzare la conquista del Messico e si chiede come sia stato possibile che poche centinaia di uomini capeggiati da Cortés (spedizione del 1519) siano riusciti a impadronirsi del regno azteco di Moctezuma che disponeva di centinaia di migliaia di guerrieri.

Cortés dopo aver combattuto i tlaxcaltechi – che diventeranno in seguito i suoi migliori alleati – arriva a Città del Messico senza resistenza alcuna, anzi viene ben ricevuto. Fa prigioniero il sovrano atzeco che cede il potere perché non vuole spargimento di sangue e poco dopo muore (forse pugnalato dai carcerieri spagnoli). Tuttavia attaccato dagli atzechi, dopo la morte del sovrano, Cortes abbandona Città del Messico con la perdita della metà delle sue forze. Si ritira a Tlaxcala dove ricostituisce le sue forze prima di muovere su Città del Messico e riconquistarla.

Cortès ha gioco facile sfruttando la doppia circostanza che gli spagnoli vengono considerati i diretti discendenti dei toltechi che subirono in passato l’invasione degli atzechi e, soprattutto, fa leva sui dissensi interni fra le diverse popolazioni che vivono in Messico, un conglomerato di popolazioni sottomesse agli aztechi che occupano il vertice della piramide. Con gli indiani suoi alleati – di cui appare quasi come un liberatore – dispone di un esercito numericamente paragonabile a quello degli aztechi.

Altre ragioni del successo degli spagnoli sono state:

– la superiorità in materia di armi e di rapidità di spostamento con l’uso dei cavalli e dei brigantini (imbarcazioni molto più veloci delle canoe indigene);

– la “guerra batteriologica” che gli spagnoli inaugurarono con la diffusione del vaiolo;

– la perdita del controllo della comunicazione da parte degli atzechi. “La parola degli dei è divenuta inintelligibile”, non parlano più, non c’è più alcun profeta. Pensarono così che i loro dei fossero morti. Quest’ultimo è considerato da Todorov il fattore decisivo perché ha evidenziato una cultura indigena priva di strumenti in grado di comprendere la presenza degli spagnoli e la loro brama di conquista.

Se per Colombo e gli spagnoli il postulato della differenza suscita facilmente il senso di superiorità sul piano linguistico o simbolico non c’era alcuna inferiorità “naturale” da parte degli indiani. La vita sociale degli aztechi era regolamentata nel modo più minuzioso e orientata all’ordine. Era una società ritualizzata dove appunto i riti religiosi sono numerosi e complessi e mediati da una casta dei sacerdoti che decide delle sorti dell’individuo e delle obbligazioni verso il gruppo. In tale cultura la morte rappresenta una catastrofe solo in una prospettiva strettamente individuale, mentre, dal punto di vista sociale, il beneficio che si ricavava dalla sottomissione alla regola del gruppo contava assai più della perdita di un individuo. In questa società le distinzioni gerarchiche acquistano un’importanza fondamentale (speculari rispetto all’”egualitarismo” che vige tra gli spagnoli) e l’individuo non costruisce il proprio avvenire che gli viene rivelato. La comunicazione non è fra uomo e uomo (come per gli spagnoli) ma fra uomo e mondo. L’uomo azteco interpreta il divino, il naturale e il sociale attraverso gli indizi e i presagi, tramite il sacerdote-indovino. La subordinazione del presente al passato resta dunque una caratteristica significativa della società indiana dell’epoca. In questo mondo rivolto al passato, dominato dalla tradizione, sopraggiunge la conquista: un evento assolutamente imprevedibile, sorprendente, unico. Essa introduce un’altra concezione del tempo, antitetica a quella degli aztechi e dei maya. La profezia è radicata nel passato poiché il tempo si ripete. Le comunicazioni rivolte dagli aztechi agli spagnoli colpiscono per la loro inefficacia. Ad esempio, per convincerli a lasciare il paese Moctezuma invia a loro ogni volta dell’oro: ma era proprio ciò che più poteva indurre gli spagnoli a restare. Altri capi offrono loro delle donne, ma esse diventeranno una giustificazione ulteriore della conquista. Vi era anche l’incapacità degli aztechi di dissimulare la verità per totale mancanza di doppiezza, mentre “gli spagnoli non hanno mai rispettato la parola data e non hanno mai detto la verità nei confronti degli indiani”. Sono gli “specialisti della comunicazione umana” in negativo a riportare la vittoria.

A questo modo particolare di praticare la comunicazione (che trascura la dimensione interumana per privilegiare il contatto con il mondo) va ricondotta l’immagine deformata che gli indiani si costruiscono degli spagnoli nel corso dei primi contatti e in particolare che essi siano degli dei, cosa che ha un effetto paralizzante. E’ evidente la loro incapacità di percepire l’identità umana degli altri, cioè di riconoscerli al tempo stesso come eguali e come diversi. L’estraneità degli spagnoli è molto più radicale per cui gli aztechi rinunciano al loro sistema di alterità umane e si sentono spinti a ricorrere all’unico altro dispositivo accessibile: lo scambio con gli dei. L’errore degli indiani non durerà a lungo, ma sarà sufficiente perché la loro battaglia sia definitivamente perduta e l’America sottomessa all’Europa.

La figura centrale di Cortés

Cortés fu il primo conquistador che aveva una coscienza politica, e persino storica, dei suoi atti. Egli farà dello spirito di adattamento il principio della sua condotta. Non si accontenta di estorcere ricchezze ma vuole di sottomettere il regno di Moctezuma. A lui si deve, da un lato, l’invenzione di una tattica per la guerra di conquista e dall’altro l’elaborazione di una politica di colonizzazione in tempo di pace. Ciò che Cortés vuole prima di tutto non è prendere, ma comprendere; sono i segni che lo interessano in primo luogo, non i loro referenti. La sua spedizione inizia con una ricerca di informazione, non con la ricerca dell’oro. Per prima cosa si cerca un interprete e ne trova due di valore inestimabile. In particolare l’india Malinche senza la quale la conquista del Messico sarebbe stata impossibile. Inoltre è il primo esempio e quindi il simbolo, dell’ibridazione delle culture; come tale essa preannunzia il moderno Stato messicano in cui la mescolanza prevale sulla purezza (azteca o spagnola).

E’ quindi l’efficace strategia dell’informazione utilizzata dagli spagnoli a provocare la caduta finale dell’impero azteco. Cortés farà in modo da essere identificato con il mito di Quetzacoatl, tornato a riprendersi il suo regno, dimostrando così di essere entrato nel “linguaggio dell’altro” per manipolarlo. In questo senso vi è un’analogia tra gli stratagemmi di Cortés e i precetti del contemporaneo Machiavelli sui nuovi valori dell’uomo di potere. Cortés comprende relativamente bene il mondo azteco, meglio di quanto il re degli aztechi non comprenda la realtà spagnola. Tuttavia questo superiore grado di comprensione non impedisce ai conquistadores di distruggere la civiltà e la società messicane, anzi rende possibile tale distruzione.

Nella terza parte dell’opera, l’autore si pone gli interrogativi centrali del suo discorso. Egli si chiede il perché della concatenazione “dal comprendere al prendere e dal prendere al distruggere”, quando la comprensione avrebbe dovuto andare di pari passo con la simpatia, e con la conservazione dell’altro, potenziale fonte di ricchezza? Tanto più che gli spagnoli non solo comprendevano bene gli aztechi ma addirittura li ammiravano. Tuttavia li hanno annientati. Perché?

L’autore rileva che anche davanti alle produzioni azteche più raffinate gli spagnoli non riconoscono i loro autori come individui umani da porre sullo stesso piano. Se per Colombo l’altro era ridotto al rango di oggetto, neanche per Cortés gli indiani sono diventati dei soggetti nel pieno senso della parola: essi sono dei soggetti ridotti al ruolo di produttori di oggetti sottolineando la distanza fra lui e loro. Cortés e con lui tanti altri illustri spagnoli che hanno partecipato alla conquista si interessano della civiltà azteca ma al tempo stesso resta loro completamente estranea.

Rimane ancora oscuro “perché il prendere porta a distruggere?” Quali furono gli elementi principali della distruzione, sia dal punto di vista quantitativo che qualitativo.

Gli storici odierni hanno stimato con buona approssimazione la popolazione del continente americano alla vigilia della conquista, confrontandola a quella che vi si trovava 50 o 100 anni più tardi, secondo i censimenti spagnoli. Nel 1500 la popolazione del globo era dell’ordine di 400 milioni di abitanti, 80 dei quali residenti in America, mentre verso la metà del XVI secolo, di questi 80 milioni ne restano 10. Limitando il discorso al Messico, dai circa 25 milioni di abitanti alla vigilia della conquista si è passati nel 1600 a 1 milione.

Il genocidio presenta cifre record non solo in termini relativi (una distruzione nell’ordine del 90 per cento o più) ma anche in termini assoluti (-70 milioni di esseri umani). Un’ecatombe non paragonabile nemmeno ai grandi massacri del XX secolo. La mortalità è data da tre cause: uccisione diretta; morte in seguito a maltrattamenti per le condizioni di lavoro imposte dagli spagnoli nelle miniere e con la riduzione in schiavitù; malattie (lo “choc microbico”).

Quali le motivazioni immediate del comportamento degli spagnoli?

La prima è incontestabilmente il desiderio di arricchirsi presto e molto, senza curarsi del benessere e della stessa vita altrui. “Uccidono per arricchirsi e avere molto oro…Questa omogeneizzazione dei valori per mezzo del denaro è un fatto nuovo, che preannuncia la mentalità moderna, egualitaria e attenta all’economia”.

La spiegazione economica non è tuttavia sufficiente a spiegare i massacri. “Tutto avviene come se gli spagnoli provassero un piacere particolare nella crudeltà, nell’esercizio del potere sugli altri, nella dimostrazione di poter dare la morte” e l’autore richiama alcune caratteristiche della natura umana che la psicoanalisi definisce come “aggressività”, “pulsione di morte”, “istinto di padronanza” senza limiti o freni.

Vi è poi l’idea pregiudiziale che i conquistatori si fanno degli indiani sulla base del concetto di “Eguaglianza/ineguaglianza”. Il loro comportamento è condizionato dal fatto che considerano gli indiani degli esseri inferiori, delle creature a mezza strada fra gli uomini e gli animali. “Senza questa premessa essenziale, la distruzione non avrebbe potuto aver luogo”. Se la prima motivazione è quella scatenante questa si può considerare legittimante.

Sia gli uomini illustri di lettere e di scienza, spesso religiosi, tendono a presentare gli indiani come esseri umani imperfetti, fino al punto di affermare – con il domenicano Tomas Ortiz – che “gli indiani sono più bestie degli asini…” e “più o meno simili a materiali di costruzione, come il legno, la pietra o il ferro”; e c’è chi come Oviedo sostiene la “soluzione finale” del problema indiano, soluzione la cui responsabilità vorrebbe fosse assunta dal Dio dei cristiani (“Dio li distruggerà tra breve”).

Nel dibattito che si apre tra i sostenitori dell’uguaglianza e i partigiani dell’ineguaglianza fra indiani e spagnoli, soprattutto intorno al 1550, spiccano diverse personalità come il filosofo Ginés Sepulveda e l’abate domenicano, Bartolomé de Las Casas. Per il primo non è l’eguaglianza ma la gerarchia lo stato naturale della società umana e quindi l’unica relazione gerarchica che conosce è la semplice relazione superiorità-inferiorità. Gli indiani sono “barbari, inferiori agli spagnoli come i bambini sono inferiori agli adulti e le donne agli uomini (…) Fra loro e gli spagnoli intercorre la stessa differenza che intercorre tra le scimmie e gli uomini”. Sepulveda considera poi legittima la guerra condotta dagli spagnoli per quattro ragioni: far valere la forza delle armi contro esseri inferiori o che hanno una natura subalterna ma rifiutano l’obbedienza; mettere al bando il cannibalismo e il sacrificio di esseri umani agli dei; salvare gli innumerevoli innocenti immolati; aprire la via alla propagazione della religione cristiana.

Il postulato è che gli spagnoli hanno il diritto di imporre il bene agli altri e di far sì che gli indiani si identifichino con valori degli invasori. La vita e la morte di un individuo sono beni personali mentre l’ideale religioso è un bene sociale assoluto che deve prevalere. La salvezza di uno solo può giustificare la morte di migliaia di persone.

C’è chi come Las Casas rifiuta questo principio perché “l’essenza della religione consiste nell’affermazione di valori transindividuali”. Il valore personale (la vita, la morte) prende il sopravvento sul valore comune (posizione moderna). Egli accomuna tutti nella visione della fede (“tutti sono idonei a ricevere la disciplina della fede”) per cui “gli indiani, essendo uomini come tutti gli altri non possono essere in alcun modo privati della loro libertà e del possesso dei loro beni”. Las Casas pone l’uguaglianza a base di ogni politica umana. E precisa che si tratta di una eguaglianza tra noi e gli altri, fra spagnoli e indiani.

Las Casas è contro i conquistadores che pretendono di giustificare le guerre di conquista nel nome dell’evangelizzazione. Ma mentre rifiuta questa violenza nello stesso tempo afferma l’esistenza di un’unica “vera” religione, quella cristiana. E quindi non rinuncia al progetto di evangelizzazione senza risolvere l’ambiguità del suo pensiero: non è forse violenza anche la sola convinzione di possedere la verità, mentre gli altri non la posseggono e si vorrebbe loro imporre? Per lui la sottomissione e la colonizzazione debbono essere conservate, ma gestite altrimenti, mentre lo schiavismo è da ripudiare. La stessa conversione non deve essere imposta, ma solamente offerta. Las Casas e Cortés concordano su: la sottomissione dell’America alla Spagna, l’assimilazione degli indiani alla religione cristiana, la preferenza per il colonialismo a danno dello schiavismo.

Nella quarta parte del saggio l’autore analizza sul piano antropologico e politico la tipologia dei rapporti con l’altro nel Messico del XVI secolo affermando che non si costituisce entro una sola dimensione. Vi sono almeno 3 assi attorno ai quali ruota la problematica dell’alterità.

  • il “giudizio di valore (piano assiologico) per cui l’altro è mio pari o è un mio inferiore”;
  • l’”avvicinamento o l’allontanamento nei confronti dell’altro (piano prasseologico): io abbraccio i valori dell’altro, mi identifico con lui; oppure assimilo l’altro a me stesso, gli impongo la mia propria immagine; fra la sottomissione all’altro e la sottomissione dell’altro vi è anche un terzo termine, la neutralità o indifferenza”;
  • “io conosco o ignoro l’identità dell’altro (piano epistemologico); qui non vi è alcun assoluto, ma un’infinita gradazione fra stati conoscitivi minimi e stati conoscitivi più elevati”.

I letterati spagnoli nel Messico del XVI secolo condividevano quasi tutti il secondo asse, quello di una politica di assimilazione con qualche differenziazione. In particolare Las Casas pur affermando l’esistenza di un unico Dio non privilegia a priori la via cristiana verso questo Dio. Egli fu il primo a mettere in evidenza la relatività il concetto di “barbarie” in epoca moderna. “Ognuno è il barbaro dell’altro”.

di Renato Frisanco

Nessun commento

Aggiungi il tuo commento