Come essere antirazzista. Perché è necessario prendere posizione contro ogni discriminazione, di Ibrahim X. Kendi

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Come essere antirazzista. Perché è necessario prendere posizione contro ogni discriminazione, di Ibrahim X. Kendi

Come essere antirazzista. Perché è necessario prendere posizione contro ogni discriminazione, di Ibrahim X. Kendi, 2020, Mondadori, Milano, 335 pagine e 519 note bibliografiche a fine testo.

Il testo di Ibrahim Kendi, fondatore e direttore dell’Antiracist Research and Policy Centre dell’Università di Boston, si basa sulla convinzione secondo cui è necessario essere antirazzisti, sradicare i presupposti del razzismo.

Il libro traccia la storia personale, il percorso complesso di Kendi, che attraverso una prima fase di razzismo contro i neri seguita da un’altra di razzismo rivolta verso i bianchi arriva in età matura, attraverso un lungo lavoro di introspezione e autoconsapevolezza, a sposare l’antirazzismo. Dimostrando che si può cambiare e che razzismo e antirazzismo non sono identità fisse ma scelte e come tali si è liberi di rifiutarle o accettarle. Analizza la complessità di un razzismo spesso ignorato dagli stessi protagonisti che si dichiarano ad esso contrario, sia attraverso esperienze dirette che con riferimenti a personaggi storici e informazioni scientifiche.

Ciò che Kendi si propone con questo testo è incoraggiare a lottare per diventare pienamente umani, annientando quei pregiudizi razziali di cui è tuttora impregnata la nostra società.  Sappiamo come essere razzisti, come fingere di essere non razzisti ma dobbiamo comprendere come essere antirazzisti. Ed è proprio quello che l’autore si propone di indicarci attraverso la sua esperienza autobiografica.

Per affrontare la questione Kendi parte dalle origini, quelle della sua famiglia e del razzismo. Nato da una coppia di afroamericani che fanno parte della borghesia americana e sposano una teologia civilizzatrice volta a educare i neri.  Il messaggio che questa veicola crea loro uno sdoppiamento della loro identità, al tempo stesso nera e bianca e in lui un dissidio che si traduce n una conflittualità interiore da cui solo col tempo e a fatica riesce a liberarsi.

Per comprendere l’origine del razzismo occorre cominciare con il darne una corretta definizione: Kendi lo considera il frutto di idee che giustificano la superiorità di un gruppo su altri in base alla razza, che vede le disuguaglianze non come fonte di arricchimento ma come differenze da temere e a cui rispondere con il predominio sull’altro. Al cuore del razzismo ci sono le politiche razziste che conseguono da questa concezione , le azioni e omissioni che danneggiano una parte considerata inferiore e che sono sorrette da interessi personali, economici, politici.

La prima forma di razzismo di Kendi è quello contro i neri, frutto della combinazione di antirazzismo e assimilazionismo, tipico delle politiche dei neri e secondo cui per liberare i neri dalla condizione inferiore è necessario civilizzarli, istruirli come i bianchi. Come il segregazionismo- che assieme all’assimilazionsimo ha connotato le politiche dei bianchi nei confronti dei neri, predicando l’inferiorità dei neri e la conseguente necessità di condannarli a trattamenti degradante- anche l’assimilazionismo è una forma di razzismo sostiene Kendi.

In entrambe le concezioni la razza è una struttura di potere che attribuisce un privilegio ingiustificato ai bianchi sugli altri, una supremazia a livello biologico, etnico, culturale, morale.

Kendi scopre la concezione biologica del razzismo durante le prime esperienze scolastiche quando nota che rispetto alla maggioranza di compagni neri il corpo insegnante è in maggioranza composto da bianchi e riportando teorie quali quelle poligenetiche, la selezione naturale e l’eugenetica che hanno giustificato massacri di popoli considerati inferiori o la riduzione in schiavitù di interi popoli. Così come considera i fattori etnici, alla base di discriminazioni tra gli stessi neri (dell’Africa e dell’America ad esempio) ma anche in passato tra popoli europei. E quelli culturali secondo i quali in base alle teorie segregazioniste e assimilazioniste le lingue e le manifestazioni culturali dei neri appartengono a un substandard sono frutto di imitazione della cultura occidentale o sono del tutto inesistenti. Tutt’altro invece come dimostra Kendi con l’esempio della cultura afroamericana peculiare e vivace.

Nel suo percorso di crescita personale, cambiando scuola, si rende conto di essere anch’esso razzista in senso culturale e si convince che le culture devono esser giudicate in rapporto alla propria storia e non in base a standard arbitrari decisi da altri.

Diverso dalla cultura ma vittima anch’esso di razzismo è il comportamento, che a differenza di quella definisce i tratti umani individuali e non le caratteristiche di un gruppo. Ed è proprio questa confusione, spiega Kedi, ad aver giustificato durante l’epoca della schiavitù e fino ai nostri giorni alcune politiche, attribuendo responsabilità al popolo in toto anziché al singolo individuo.

Nel trattare del colore, prima bianco poi nero, riporta nel primo caso come il modello di superiorità diffuso dai bianchi abbia spesso e in diverse epoche storiche indotto i neri ad imitare e assomigliare ai bianchi: allisciandosi i capelli, sbiancandosi la pelle, indotti da quelle politiche che spiegano l’inferiorità dei neri con il colore della loro pelle e con specifiche caratteristiche fisiche. In questo periodo della sua vita Kendi da razzista contro i neri lo diventa nei confronti dei bianchi: non riconosce l’esistenza delle diversità sia fisiche che culturali anche tra i bianchi ed erroneamente identifica il potere razzista con i bianchi tout court.

Oltre al razzismo dei bianchi contro i neri va considerato quello dei neri contro i loro simili, quando distinguono tra “neri” e “negri” (esseri spregevoli e inferiori), nella convinzione, errata, di non esser razzisti in quanto privi di potere. Attraverso alcuni esempi Kendi ricorda che il razzismo dei neri contro altri neri esisteva anche nel passato soprattutto quando cercavano di conquistarsi la benevolenza dei bianchi.

Nel descrivere un “nuovo capitolo” della sua vita iniziato con la scelta del percorso universitario di studi afroamericani l’autore comprende che la lotta non è tra bianchi e neri ma tra razzismo e antirazzismo. Ed è allora che la dicotomia tra assimilazionismo e antirazzismo fino a quel momento, radicata in lui, sparisce.

Trasferitosi nel nord di Philadelphia in un quartiere abitato quasi esclusivamente da neri comprende anche la dimensione classista del razzismo responsabile della povertà di molti abitanti dei ghetti assieme al suo “gemello siamese”, il capitalismo. Da quando esiste il capitalismo ha introdotto su scala globale le disuguaglianze, prima con la schiavitù e il lavoro forzato, poi con altre forme di dominio coloniale e oggi con il neocolonialismo e lo sfruttamento di materie prime.

Il razzismo è evidente anche in ambito spaziale, come indica Kendi citando statistiche e comportamenti attuali: nell’ipocrisia dell’uguaglianza tra bianchi e neri, accompagnata da una netta separazione degli spazi, nel riconoscimento dello spazio bianco integrato (che assimila la “minoranza” nera) come superiore rispetto agli spazi neri segregati o integrati. Anche nelle politiche di genere l’autore ricorda come il razzismo sia diffuso assieme al sessismo con cui è strettamente correlato nel cosiddetto “femminismo nero”, attraverso cui le donne nere hanno combattuto il razzismo negli spazi femminili e il sessismo in quelli dei neri. Eppure nelle pratiche femministe e antirazziste queste due dimensioni non sono considerate come intrecciate.

L’autore riconosce le cause del fallimento e quelle del successo nella lotta contro il razzismo. Tra le prime, l’approccio educativo e moralistico per combattere le discriminazioni, perdente rispetto ad uno volto al cambiamento delle politiche. Il successo si ottiene infatti solo se si riconosce che quello che oggi è definito in America ” razzismo istituzionale” è il frutto di determinate politiche, idee, convinzioni e scelte che partono da noi stessi e di cui dobbiamo diventare consapevoli e possono essere cambiate.

Ed è questa consapevolezza che in età matura lo ha indotto a intraprendere un nuovo metodo di insegnamento, non attraverso  l’educazione ma  incoraggiando  la collaborazione tra  studenti e professionisti per cambiare le politiche attraverso la costituzione dell’ Antiracist Research and Policy Centre all’Università di Boston.

E paragonando il razzismo  a un tumore, di cui è  stato vittima  ma  da cui fortunatamente  (e insperabilmente) è riuscito a salvarsi, a conclusione del testo invita a lottare contro il razzismo, usando, per estirparlo, le stesse armi e tecniche usate per combattere un cancro.

Seppure nulla lasci pensare oggi che il razzismo sarà sconfitto, dobbiamo credere che questo sia possibile. Provare a sconfiggerlo non è garanzia di successo ma neanche di fallimento; forse possiamo dare all’umanità una possibilità di sopravvivenza. Se invece perdiamo la speranza, invece, la sconfitta sarà certa.

Frase emblematica: “Nella lotta contro il razzismo non esiste neutralità e non essere razzisti non basta. É necessario essere antirazzisti”.

In conclusione: Il nostro mondo è affetto da un cancro con metastasi. Il razzismo si è diffuso in quasi ogni parte del corpo della nazione intersecandosi con ogni sorta di intolleranza legittimando le disparità e accrescendo sfruttamento e odio, la demagogia che colpisce le nazioni, attaccando la democrazia e minacciando l’umanità con il cambiamento climatico e la guerra nucleare. Troppe persone tuttavia negano di esser razzisti usando idee razziste per giustificare le disparità tra razze.

di Pamela Peschern

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