Contro il razzismo. Quattro ragionamenti

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Contro il razzismo. Quattro ragionamenti

A cura di Marco Aime, Giulio Einaudi Editore, Torino, 2016, pagine 157 (riferimenti bibliografici a fine capitolo e bibliografia finale di 30 testi).

Il testo presenta quattro approfondimenti sul razzismo, fenomeno che è necessario conoscere per poter contrastare. Essi fanno riferimento ad altrettanti ambiti disciplinari: la prospettiva genetica, lo sguardo antropologico, l’analisi di tipo linguistico e l’approccio socio-giuridico. L’obiettivo degli autori era quello di ragionare a mente fredda sul razzismo, concetto dinamico che muta volto con i cambiamenti sociali.

Come si ricava dal contributo del genetista (Guido Barbujani, “Invece della razza) è nel Settecento che si diffonde l’idea che la razza stia nel sangue e cioè che uno nasca di una certa razza e la trasmetta ai figli. Da qui i tentativi di un “catalogo delle razze”. Nell’Ottocento le nuove conoscenze scientifiche sostengono l’”idea che il diritto di formare uno Stato nazionale si appoggi a una lingua, a una terra e, anche o soprattutto, a una purezza razziale, a un’origine comune. Via via svaniscono i confini tra scienza e ideologia fino ad aprire la strada al razzismo di Stato culminato nel genocidio ebreo della seconda guerra mondiale.

Nella seconda metà del Novecento, prima, l’antropologo Frank Livingstone pubblica un articolo “Sull’inesistenza delle razze umane”(1963) e, poi, Richard Lewontin (1972) dimostra che la classificazione razziale umana (le 7 razze che allora andavano di moda)[1]non ha alcun significato genetico o tassonomico, né alcun valore sociale”. Non c’è alcuna giustificazione per mantenerla. “Ciò significa che persone con caratteristiche genetiche simili si trovano in posti anche molto lontani, e che ciascuna popolazione umana contiene un campionario molto vasto delle varianti genetiche delle altre popolazioni”.

Lo sguardo dell’antropologo (Marco Aime, “Si dice cultura, si pensa razza) si concentra su “nuove dinamiche di razzizzazione”, perché “se la razza è stata messa alla porta dalla scienza, il razzismo no”. Egli evidenzia i tentativi di rimpiazzare razza con etnicità, nazionalità, civiltà o cultura. I nomi sono diversi ma lo spirito classificatorio e gerarchizzante si mantiene nel pensiero del nuovo razzismo che sostituisce il paradigma biologico con un quadro di riferimento culturale che fa proprie “nuove linee di discriminazione”. La retorica di questo modello mutua i concetti di popolo o etnia, autoctonia, radici, tradizione. Concetti non lontani dai germi della concezione nazista di “terra e sangue”. Essi fondano il “determinismo culturale” per cui la nostra identità è segnata fin dalla nascita dall’inscindibile legame con il suolo. Se la “tradizione” rende fissa e immutabile l’idea di cultura, il mito dell’autoctonia rimanda “ad una concezione tribale e fissista” e rafforza “la chiusura all’esterno: “il “noi” diventa inevitabilmente un “non-loro” concezione tribal-privatistica della terra e della cosa pubblica” da cui lo slogan “padroni a casa nostra”.

Questa chiave di lettura culturale richiama il concetto di “scontro di civiltà”. Si tende così a “etnicizzare” qualsiasi tipo di conflitto tra individui o gruppi. La “cultura concepita come dato biologico, ascritto, immutabile, dogma inscalfibile diventa l’elemento di separazione tra gruppi”. Non si ammettono contaminazioni di altre culture. I nuovi razzisti si palesano come paladini delle specificità culturali in ragione di “un principio di differenziazione che tende ad allontanare e separare, mentre quello biologico tendeva a sottomettere”.

A tale posizione – tipica di un fondamentalismo culturale – l’autore del capitolo ribatte che gli uomini possiedono piedi e non radici e possono scegliere come agire. La cultura “non è un elemento innato ma si acquisisce, è il prodotto di una educazione prolungata, di una costruzione sociale”. E’ pertanto prodotto ed elemento di relazione e non di esclusione. Inoltre la nostra “specie è migrante”, perché i movimenti di massa nella storia dell’umanità sono stati la regola, non l’eccezione. I continui scambi e incontri tra le popolazioni hanno costantemente rimescolato non solo i nostri geni (per cui è insostenibile una classificazione razziale) “ma anche molti elementi culturali al punto di poter oggi affermare che ogni cultura è di per sé multiculturale”.

Con il linguista Federico Faloppa (“Per un linguaggio non razzista”) si prende atto che se il razzismo è mutato nelle sue rivendicazioni, basandosi oggi su un intreccio di fattori sociali e culturali, è mutato di conseguenza anche il discorso razzista. Questo si è fatto più articolato ed eterogeneo, viene declinato in vari modi, talvolta è sfumato e generico o senza i riferimenti ideologici classici ma conosce un ampliamento del suo campo semantico. Per lo studioso del linguaggio il razzismo si articola in nuove pericolose forme anche sul piano linguistico come dimostra la crescita della violenza verbale e dello hate speech (“discorso che incita all’odio”), che corre soprattutto sul web, pressoché senza controllo. Si assiste anche ad un’opera di ristrutturazione semantica della terminologia razziale (e razzista) di cui è esempio il passaggio dall’uso di “negro” – con la sua connotazione stigmatizzante – a “nero” o “di colore”. Indicativo di un linguaggio viziato da una posizione pregiudiziale nelle narrazioni a sfondo “razzista” è l’uso dei termini “buonismo-buonista” per intendere, in modo un po’ liquidatorio, un comportamento tollerante o benevolente in relazione ai fenomeni migratori e per questo inaffidabile e nocivo. Per l’autore si tratta di lavorare sulle narrazioni distorte – che “non sembrano razziste” – come sono quelle che spesso accompagnano il lessico di chi veicola informazioni sui rom o sui migranti, che non aiutano a distinguere le situazioni e a comprendere le condizioni, che producono panico da invasione nell’opinione pubblica e che spesso maneggiano dati statistici senza entrare nel merito e verificarne la fonte.

Infine, il contributo della docente dei diritti umani Clelia Bortoli – “Concentrare, segregare e assistere – ci offre l’immagine di un razzismo che rivela una “strategia perdente”: con le politiche di confinamento dei Rom nei loro campi e dei migranti, che si ritrovano incastrati in un destino di marginalità, prima nei luoghi dell’accoglienza e poi nelle periferie metropolitane degradate piuttosto che incoraggiati a costruire percorsi di cittadinanza. La cosiddetta “macchina dell’accoglienza” costituisce un esempio di discriminazione messo a sistema. Sistema che invece di includere, recuperare e valorizzare risorse umane potenzialmente produttive le mortifica in un assistenzialismo fatuo e alimentano la visione dello “zingaro” o del “migrante” come portatore “naturale” di pericolo, come icona di ogni male. Tutto questo produce aumento di avversione, xenofobia e relativi pregiudizi che si presentano sotto nuove forme anche a seguito dell’influsso di retoriche politico-mediatiche.

L’autrice si sofferma in particolare sulla estesa tipologia di luoghi per l’accoglienza degli immigrati che costituiscono una “fabbrica della marginalità” facendo riemergere i fantasmi delle spersonalizzanti “istituzioni totali” attive almeno fino agli anni Settanta. Per la Bartoli le criticità dei luoghi di accoglienza risiedono nei tempi dilatati di una permanenza sospesa e vuota, in una situazione di indeterminatezza, nell’attesa del riconoscimento dello status di rifugiato senza poter lavorare; vi è poi la mancanza di standard minimi di rispetto della dignità umana, nelle condizioni igienico-sanitarie; infine, l’isolamento in Centri collocati in aree non urbane aggrava una restrizione priva di qualsiasi progettualità e possibilità di integrazione. Tali luoghi tendono ad “assistere e infantilizzare” gli “ospiti” per esporli, una volta usciti da questi recinti, ad una vita degradante nei ghetti metropolitani, e spesso in “guerra” con altri poveri. Ma per l’autrice si tratta “in realtà di una guerra ai poveri” come spiega il dato della crescita vertiginosa delle disuguaglianze, in termini di reddito e di diritti. Tale politica però non paga, non solo in termini di giustizia sociale ma anche di crescita economica. E’ invece possibile un governo delle migrazioni che sia “fattore propulsivo del sistema economico e sociale”. Vi è l’esempio dei comuni calabresi dove alcuni progetti con i rifugiati rappresentano un modello di accoglienza sostenibile e insieme un’opportunità di sviluppo e di rivitalizzazione del territorio.

Frase emblematica: “Autorevoli economisti e importanti organismi internazionali, a cominciare dalle Nazioni Unite, ormai sostengono il nuovo paradigma: equità e coesione sono presupposti non solo per la giustizia sociale ma anche per la crescita economica”.

In conclusione. “Gli effetti dell’esclusione sociale non riguardano solo gli esclusi. Se una parte resta indietro, alla lunga – con poche eccezioni – tutti ne pagano le conseguenze: è accaduto con il Meridione e pare accadere con la popolazione di origine straniera”.

[1] In realtà “ogni studioso finiva per calcolare un numero diverso di razze, al punto che non si è mai arrivati ad una classificazione condivisa”.

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